GANZFELD

18 settembre 2006

World is a dangerous place, but I feel safe here.

Go. Last exit. Save you. Così, tre pezzi senza fiato per dire: siamo tornati. Due ore brucianti. Ognuno aveva la sensazione di essere da solo con Eddie e compagni. E’ stato un abbraccio lungo due ore, come rivedere vecchi amici dopo una vita, poteva anche non esserci musica, bastavano loro, bastava vederli vivi lì su un palco.

Ma la musica c’è stata. Perfetti, un tiro violento. Matt alla batteria ci ha piazzato anche un solo. Non ha mai perso un colpo, da quando c’è lui gira tutto a meraviglia: sembra un carro armato lanciato, ma quando è il momento ha la delicatezza e la grazia di un omone con i suoi bambini. Alla sua sinistra, my love, Stone. Pacato e indispensabile. Una chitarra via l’altra per mettere gli accenti dove mancano. L’unico rockettaro del mondo che suona senza fare una piega, accompagna la sua mano destra con i movimenti della testa, più la musica tira meno muove le mani, perchè le muove solo dove serve, solo nel momento giusto, quello che fa saltare la gente.
Dall’altra parte del palco Mike. La sua Strato consumata e i suoi soli, sempre quelli, ma che alla fine, quando da solo sul palco ci saluta con Yellow Ledbetter non gli si tolgono gli occhi di dosso.
Mike e Stone avevano alle loro spalle una sfilza Fender Deville che sa Dio solo come suonavano. Mike i suoi li buttava dentro casse Marshall che avrebbero fatto tremare un esercito.

In mezzo a loro Jeff: l’aspetto da surfista ragazzino che saltava come si faceva una volta, girando in aria e ricadendo sull’accento, non mancandolo mai. Il suono del basso dovrebbe essere così: pulito, caldo ma mai troppo presente, senza quel fastidioso duuuu-duuuu che fa vibrare il petto.

E poi Eddie. Capelli lunghi e barba, com’era quando 15 anni fa hanno iniziato un nuovo capitolo della storia del rock’n’roll. Pantaloncini corti e in piedi sulle casse. Mi sembrava di essere al loolapalooza nel ’92, che non ci sono mai stato ma l’ho pensato tanto che è come se lo fossi. Quando erano tutti sulllo stesso palco, con Chris, Layne (in lovin memory) e tutti gli altri che mi hanno fatto amare la musica.
Come allora la sua voce penetrava ovunque, sembrava il forum non riuscisse a contenerla.
La sua voce come il suo mood lo hanno fatto amare più di ogni altro. Il suo profondo rispetto per i fan.

Ha letto una cosa scritta in italiano: incespicando ha detto che sono stati troppi sei anni senza di noi, senza il pubblico italiano che ama, senza il pubblico di Milano, che è il più intonato i tutti e che loro ci hanno sempre pensato in questi anni. E non è retorico, no. Perchè alla fine di Black, finita la musica, abbiamo continuato a cantare, ancora e ancora, e loro ci hanno applaudito mentre cantavamo e Ed aveva le mani sulla testa dallo stupore, che poi le ha spostate sugli occhi per la commozione. Dopo, per una attimo, iniziando Crazy Mary, aveva la voce spezzata. E alla fine di Crazy Mary eravamo noi, migliaia, con la voce spezzata.

Questo e molto altro sono i Pearl Jam. Diventati eroi in punta di piedi, solo scrivendo pezzi che hanno conquistato il mondo, mantenendo l’aspetto della band di tuoi amici. Dopo un concerto dei Pearl Jam nessun altro sarà uguale.
L’intensità a stecca dall’inizio: se smettevo un attimo di cantare a squarcia gola e ascoltavo il pezzo, i suoni, guardando le loro facce, pensando alla loro storia, saliva il magone fin dietro gli occhi.
Ho girato il forum, davanti nella calca e in fondo sopra l’area vip: la tensione era la stessa ovunque, sul palco c’erano cinque persone che facevano vibrare chiunque.

Il rock’n’roll è questo qui. Si suona così. C’è chi diceva “sono solo canzonette”. In effetti lo sono, ma queste canzonette fanno saltare sulla sedia. Migliaia di persone all’unisono, abbracciando quei cinque ragazzi sul palco, con Ed che dopo migliaia di live si commuove ancora.

Tutto questo era riassunto in uno striscione, diceva:

"your light made us stars."